Notizie costanti di femminicidi e di morti sul lavoro si rincorrono costellando la cronaca quotidiana. Tre morti sul lavoro ogni giorno. Tre femminicidi ogni settimana. Una media ossessiva. Le statistiche sono implacabili, anche quelle ufficiali; quelle elaborate da strutture autogestite, come l’Osservatorio transfemminista sulla violenza di genere, ne contano molte di più. E in mezzo c’è la scia di sangue degli innumerevoli episodi di violenza e di infortunio. Non è un accostamento fuori luogo: morti sul lavoro e femminicidi, ordinari infortuni e ordinaria violenza sono associabili, in quanto caratterizzati da rapporti di debolezza e subalternità.
Si muore a casa per mano di chi ti sta accanto. E in genere un femminicidio, un lesbicidio, un transcidio è sempre l’ultimo di una sequenza di atti e comportamenti, l’esito di un rapporto di potere esercitato in vari modi, dalla sottomissione psicologica ed economica, alle violenze fisiche su chi viene percepito come un corpo di proprietà, da uccidere pur di non accettarne l’autonomia. Intorno alla persona che subisce violenza, quando va bene c’è l’esiguità dei servizi sociali territoriali, i Centri Antiviolenza che non riescono a rispondere a tutte le richieste a causa dei pochi finanziamenti; altrimenti c’è l’indifferenza e la minimizzazione complice di chi raccoglie distrattamente una denuncia in un ufficio di polizia, la crudeltà dei tribunali comprensivi verso i maschi violenti, il sessismo imperante nei titoli dei giornali: quella che si chiama violenza secondaria.
Si muore sul lavoro, svolgendo mansioni la cui contropartita sarà un salario spesso misero e non dignitoso, magari manovrando macchinari o misurandosi con processi produttivi i cui “ingranaggi” e dispositivi di sicurezza non funzionano, o funzionano male. Si muore di lavoro per l’inadeguatezza o la totale mancanza delle misure di sicurezza, per lo “stato di necessità” che rende disposti a tutto pur di avere un reddito. Si muore di lavoro perché il sistema capitalista considera il diritto alla sicurezza, alla salute e alla vita come un ostacolo al profitto.
A costellare la cronaca non è solo l’atrocità dei fatti, ma la crudeltà delle narrazioni. Ed ecco allora che questa mattanza quotidiana ottiene visibilità mediatica solo nei casi più eclatanti, come è successo per la strage sul lavoro nel cantiere Esselunga di Firenze, o per la ThyssenKrupp di Torino, dove anni fa morirono otto operai; appena un rigo invece, presto dimenticato, inghiottito dall’episodio successivo, per i tanti lavoratori che perdono la vita, spesso in un’età in cui ormai non si dovrebbe più lavorare, in orari in cui la gente dovrebbe essere a casa, e assai spesso, in quello che viene definito “il primo giorno di lavoro”, vergognoso mascheramento di un lavoro in nero “regolarizzato” dopo la morte.
E la narrazione dei femminicidi? Assai diversa è la visibilità e la comprensione quando si tratta di una ragazza di buona famiglia, di una studentessa perfetta, di una donna sposata, di una donna incinta, di una donna bianca. Altra cosa se si tratta di una ragazza un po’ sbandata, di una persona dalla vita “irregolare”, di una persona LGBTQI+; addirittura, nel caso di persone sex workers, il femminicidio, che ha le stesse caratteristiche di violenza sessista di tutti i femminicidi, viene grottescamente annoverato tra le morti sul lavoro, ritenuto un inconveniente da mettere in conto, vista la tipologia di lavoro….
Morti sul lavoro e femminicidi. Infortuni e violenze sessuali. È lo scenario devastante della guerra quotidiana imposta dal capitalismo, dalla cultura patriarcale e sessista, è la violenza profonda strutturale e sistemica di questa società basata sul dominio dei corpi, sulla divisione in classi e sulla divisione dei sessi, sul preteso potere degli sfruttatori, degli oppressori, dei padroni, di chi vuole dominare i nostri corpi. A questa violenza sistemica occorre reagire sottraendo i nostri corpi al dominio del potere e dello sfruttamento, cogliendo le connessioni tra le varie forme di oppressione e organizzando lotte efficaci per non morire più e per liberare le nostre vite.
Claudia